Difficoltà o problemi?

consigli

Ho un problema con mio figlio.

Quante volte ho sentito questa frase?

Molte persone si rivolgono a me per questioni legate alla loro professione ma la vita dei loro figli rimane (ed è giusto che sia così) la loro preoccupazione maggiore.

Quando me ne parlano, a volte, per semplificare usano la parola “problema”, ma non tutte le difficoltà che si incontrano si trasformano in veri e propri problemi

Dunque tiriamo un sospiro di sollievo!  

Credo sia comunque utile, a livello di consapevolezza, capire quando una difficoltà si può trasformare in problema. E questo avviene quando la difficoltà viene affrontata in modo non adeguato oppure quando di fronte ad una difficoltà che persiste, si continua ad applicare la stessa soluzione anche quando non funziona. 

Ma, in concreto, cosa significa affrontare una difficoltà in modo non adeguato? 

Si rivolge a me una donna, 43 anni, che chiameremo con il nome di fantasia di Laura.

Laura è una manager in una grossa multinazionale, lontana da casa almeno due giorni a settimana, mamma di un bambino che chiamerò Pietro. La cui difficoltà di Laura è legata alla gestione del suo senso di colpa per aver, a suo dire, trascurato il figlio a causa dei suoi ritmi di lavoro.

Il primo giorno che ci incontriamo mi racconta questa storia.

Quando Pietro frequenta la classe terza della scuola primaria (ora frequenta la prima classe della Secondaria), la maestra segnala a Laura che suo figlio è spesso sovrappensiero e che si distrae molto, soprattutto durante le letture di classe e che, secondo lei, è perché Pietro non riesce a seguire e, quando finalmente arriva il suo turno di leggere, di solito non sa dove si è arrivati; inoltre quando inizia a leggere dimostra di essere più lento rispetto alla media. Oltretutto ha una calligrafia poco leggibile, fa ancora molti errori nel dettato e fatica molto nella produzione del testo.

La maestra esprime i suoi dubbi riguardo a una probabile diagnosi di dislessia ma è molto cauta dice alla mamma che è solo un’ipotesi e che esistono specialisti esperti che possono fugare ogni dubbio mediante test specifici però insiste sul fatto che sapere se esiste o meno questa difficoltà di Pietro potrebbe fornire un orientamento a entrambe sull’aiuto da dare al bambino.

Tuttavia la mamma non considera assolutamente l’ipotesi, dice che Pietro è nato a Gennaio, che è più piccolo degli altri, che deve ancora maturare e che è del tutto normale che il suo livello di attenzione sia inferiore a quello dei compagni.

Contestualmente però inizia a tartassare il figlio dicendogli che non impara perché non si impegna, ricoprendolo di raccomandazioni ogni mattina (mi raccomando stai attento! Guai a te se ti distrai, non chiacchierare e via così), rinforzando anche la dose di compiti a casa.

Pietro però a scuola si comporta sempre peggio, finisce spesso fuori dalla porta e il suo rendimento non migliora affatto.

Al termine della quinta Laura, spaventata dal futuro ingresso alla secondaria, fa sottoporre Pietro ai famosi test i quali, come esito danno una diagnosi di dislessia…ma, nel frattempo, la difficoltà si è trasformata in problema.

Quindi affrontare una difficoltà in modo non adeguato, come dimostra il caso che vi ho raccontato, significa non agire quando si dovrebbe agire.

E negare, come ha fatto la mamma di Pietro, che ci sia una difficoltà da affrontare porta inevitabilmente a un problema da risolvere.

L’esempio che ho portato sembra paradossale…chi negherebbe un aiuto al proprio figlio? Eppure, in buona fede, è un atteggiamento molto comune: spesso questo avviene per il bisogno di mantenere una “facciata sociale accettabile” oppure perché considerare l’idea che nostro figlio abbia un problema (di qualunque natura o entità esso sia) significherebbe mettere in discussione il nostro ruolo di genitori. 

Abbiamo detto che un modo di affrontare una difficoltà in modo non adeguato rischiando che la difficoltà si trasformi in problema, è quello di non agire quando si dovrebbe agire; a volte però succede il contrario, cioè si agisce e invece non si dovrebbe agire. 

È il caso di una ragazzina di prima superiore solare, simpatica, con ottimi voti a scuola. Me ne parla il padre della ragazza che chiameremo Clara.

Clara è stata lasciata dal suo fidanzatino, si dispera, piange e sembra inconsolabile.

Il padre si preoccupa, inizia a scriverle un’infinità di messaggi (anche mentre è a scuola) per sapere come sta, per consolarla, per tenerle compagnia. Quando va a prenderla fuori da scuola in macchina, fa sempre in modo di mettere le sue canzoni preferite, per farle coraggio, dice.

Ogni giorno le propone qualche attività di svago (cinema, shopping…) per sollevarle il morale e la tristezza di Clara diventa l’argomento preferito in casa e fuori.

Clara continua ad essere triste ma non le viene lasciato né il tempo né la libertà di vivere la sua tristezza, anzi, inizia a sentirsi anche un po’in colpa di fronte a quell’escalation di sforzi per renderla allegra e la tristezza si trasforma in profonda inquietudine.

A quel punto le viene proposto l’aiuto di uno psicologo sancendo a tutti gli effetti la trasformazione di una momentanea tristezza in un problema.

Spesso ci sono genitori che si preoccupano più del dovuto perché sono spaventati dall’idea che i loro figli possano scivolare dalla tristezza alla depressione e così si sforzano di intervenire quando invece basterebbe comprendere e pensare alle difficoltà come occasioni di crescita.

Una tristezza come quella di Clara è assolutamente normale in un’età in cui tutti i sentimenti sono vissuti in modo amplificato e che anzi, è utile: utile per crescere, per confrontarsi con emozioni quali dolore, rabbia, utile per rafforzare i legami con le amiche con le quali condividere questi momenti.

Quando il padre di Clara ha capito che non agire e “lasciare soffrire” la figlia sarebbe stato un grande gesto d’amore, la situazione è rientrata velocemente. 

Infine si affronta una difficoltà in modo non adeguato quando si agisce a livello sbagliato. 

Un esempio è il comportamento di una donna che chiameremo Anna, 50 anni, a capo di un’azienda a cui ha dato vita partendo dal nulla. Il padre di Anna era operaio e la mamma casalinga e non avevano possibilità economiche ma Anna si è sempre data molto da fare, si è laureata in ingegneria grazie alle borse di studio e facendo lavoretti saltuari la sera e ha giurato a se stessa che, se mai avesse avuto un figlio, non gli avrebbe fatto mancare nulla.

Ora Anna un figlio ce l’ha, ma pretendere che il figlio debba essere sempre e per forza felice solo perché desiderato, ben allevato, soddisfatto in ogni necessità e che debba dimostrare i sentimenti “giusti” è un atteggiamento che, se protratto nel tempo può causare dei problemi.

Anna ha agito, come ha sempre fatto nella sua vita ma, se pur in buona fede, ha agito a livello sbagliato. 

Molte volte chi interviene sui problemi, davanti a soluzioni che si dimostrano inefficaci, invece di sostituirle con altre le intensifica convinto forse di non averle applicate sufficientemente bene.

Vorrei chiudere con questo aneddoto “strategico”:

pensate che Milton Erickson, uno dei principali ispiratori delle tecniche utilizzate dall’approccio strategico, davanti al rifiuto di mangiare le verdure da parte di uno dei suoi figli cominciò a proibire alla moglie di servirgli le verdure asserendo che era troppo piccolo per poterle mangiare (il figlio aveva quattro anni). Dopo breve tempo il bambino chiese alla madre se era diventato già abbastanza grande per poter mangiare le verdure.


Adriana Paolini

La mia missione è quella di aiutarti a diventare la persona che vuoi realmente essere liberandoti da stati di stress e frustrazione attraverso l’apprendimento di strategie efficaci, basate sulle neuroscienze, che ti aiuteranno a recuperare lucidità mentale e ti permetteranno di prendere decisioni migliori sulla vita

Link Utili

Privacy Policy